Archive For 26 Febbraio 2021
Carlotta Palumbo
Il nostro ambiente, tanto inquinato quanto difeso, tanto modificato quanto tutelato, cosa è? La terra, l’ambiente, sono tutto ciò che ci circonda, sono la nostra casa e la nostra ragione di vita. È solo grazie al nostro pianeta che noi riusciamo a vivere nelle condizioni attuali, è grazie a lui se respiriamo, parliamo o camminiamo, in fin dei conti è da lui che siamo nati ed è da lui che dipendiamo.
Con il tempo l’uomo si è preso sempre più libertà pensando che, forse, un modo per controllare un’entità così grande come la Terra, ci fosse. Con queste convinzioni si è diffuso il pensiero che fosse possibile sfruttarla, che, anzi, l’uomo ormai era diventato così intelligente da essere in grado di usufruire di tutte le risorse del pianeta senza subirne le conseguenze, perché, dopotutto, l’uomo è superiore a tutto, non è vero?
Se ci si pensa bene è un po’ come sfinire il proprio genitore abusando sempre più della sua pazienza. Secondo me è proprio così che noi umani ci siamo comportati e abbiamo ragionato. Siamo andati avanti, dapprima senza essere consapevoli dei danni che stavamo provocando, e, successivamente, abbiamo continuato nonostante, ormai, ne conoscessimo gli esiti. Ed è per questo motivo che ora più che mai la nostra generazione, la generazione di noi ragazzi, deve dire STOP a quello che, secondo me, si può considerare una forma di violenza e di sfruttamento verso il nostro pianeta. Per questo ogni parola e ogni gesto contano. Perché non dobbiamo per forza fare un discorso per farci sentire, perché, se ci crediamo veramente, basta una frase detta a noi stessi, a un amico, a un genitore, ma anche a uno sconosciuto, a invertire questo trend. Un trend che ci porterà a un futuro disastroso, o meglio, ci porterà a non averlo proprio un futuro. E perché privarci di ciò che prima di essere un diritto è una necessità? Perché costringerci a rassegnarci? Perché vietarci di concepire l’idea di un cambiamento? Solo perché tanto a governare e a risolvere I problemi ci pensano I politici, quei politici di cui ci lamentiamo tutti I giorni ma che rivestono quella carica solo perché noi abbiamo voluto che la ottenessero eleggendoli. Quei politici che pensano solo al potere, ai soldi e all’economia.
Secondo me in tutti noi, vige un po’ la convinzione che, generalizzando, non abbiamo il potere di cambiare le cose, troviamo una valvola di sfogo nel giudicare tutti coloro che ce l’hanno ma non lo applicano con le modalità giuste. Secondo me, quindi, non risolveremo un problema così grande come può essere l’inquinamento ambientale accusando tutti i potenti che purtroppo non sono riusciti a frenarlo, ma decidendo di agire personalmente e concretamente, cominciando a vedere e trattare questo problema in quanto tale, senza limitarci a parlarne passivamente perché ci sembra doveroso farlo. Io stessa quando scrivo rimango scioccata, scioccata che una ragazza come me insieme a molti altri, spero, debba risolvere un problema causato da generazioni fin troppo ambiziose e temerarie, ma dall’altro lato mi do forza perché devo farlo, perché non solo voglio un futuro per me stessa, ma lo voglio per gli altri e l’unico modo per farlo è rallentare, fermarsi e analizzare quelli che sono dati oggettivi, partire da quelli per rimediare e per non sbagliare nuovamente. Per questo nel lavoro sull’inquinamento ambientale assegnato a scuola, ho deciso di trattare di un tema di cui si discute molto poco ma che in realtà incide molto di più di quanto si pensi sul nostro pianeta e, purtroppo, è facile dedurre che non incide di certo positivamente. Si tratta dell’effetto che ha l’industria tessile, in particolare del settore della moda, sul nostro pianeta. Basti pensare che incide in ben otto campi differenti. La prima e la più urgente problematica è sicuramente rappresentata dal cambiamento climatico, infatti l’industria della moda produce una quantità esorbitante di anidride carbonica, la cui produzione, si stima, aumenterà del 60% circa nei prossimi dodici anni. È allarmante, infatti, che solo l’industria dei jeans produca il 13% delle emissioni annue totali di CO2.
La seconda problematica è lo sfruttamento e l’inquinamento delle risorse idriche. Queste risorse sono necessariamente utilizzate, a partire dall’acqua impiegata nelle piantagioni fino ad arrivare ai trattamenti dei materiali e ai lavaggi degli indumenti a casa. Ciò che più lascia interdetti è che per produrre anche solo un’unica maglietta venga impiegata la quantità d’acqua pari al fabbisogno di acqua di una persona in tre anni. Al grande impiego di questa risorsa si affianca anche lo smaltimento delle sostanze di scarto prodotte dalle industrie a scapito dell’ambiente circostante perché queste sostanze si riversano nei fiumi, nei mari e nelle acque sotterranee danneggiando anche l’uomo e gli animali.
Il terzo problema riguarda l’inquinamento provocato dai pesticidi, in quanto essi vengono applicati in quantità elevate soprattutto in India dove sono presenti le maggiori piantagioni di cotone. In contemporanea all’utilizzo di pesticidi c’è anche un forte sfruttamento del suolo che riveste la quarta problematica. Ciò porta inevitabilmente ad una diminuzione delle risorse naturali, quinta problematica. Infatti, sia la produzione che il trasporto dei capi di abbigliamento porta ad un vasto utilizzo di combustibili fossili e della manodopera, per definizione limitati.
Solamente per produrre e trasportare i materiali per la realizzazione di un paio di jeans si passa per quattro continenti diversi. Avendo un impatto notevole e subito evidente sull’ambiente, il sesto problema è rappresentato dal fatto che, con il calo dei prezzi sui prodotti, le persone sono indotte ad acquistare sempre più abiti che vengono utilizzati per un arco di tempo molto limitato e poi messi da parte incrementando i fenomeni del consumismo e dello spreco.
Il settimo fattore è legato al benessere umano che viene compromesso dagli attuali ritmi di produzione delle industrie. L’ultimo problema, che riguarda in prima persona gli uomini e si collega al punto precedente è la cosiddetta schiavitù moderna che è rappresentata da pesanti forme di lavoro forzato, sfruttamento minorile e tratta di esseri umani. Questi fenomeni sono frequenti soprattutto in quelle che sono le industrie dei grandi brand della moda che spesso di trovano in luoghi come la Cina e il Bangladesh, dove le associazioni sindacali non sono né solide né diffuse e a nessuno importa tutelare i diritti dei lavoratori che, nella maggior parte dei casi, sono rappresentati da donne e bambini, costretti a lavorare in condizioni disagiate per ore, ricevendo un salario minore di quello che gli spetta. È proprio a questo proposito che ho letto un libro intitolato “Sulla strada di Iqbal” che parla di Iqbal Masili, il primo ragazzo sindacalista del Pakistan a lottare contro lo sfruttamento e il lavoro minorile, che fu assassinato a soli dodici anni solo perché aveva avuto il coraggio di far sentire la sua voce. Prima di morire riuscì anche a condurre un discorso all’ONU dove chiedeva la libertà, la parità e l’uguaglianza che si basano sul riconoscere le nostre differenze. Questa storia di sovrappone anche a quella di una ragazza romana della mia età, a cui è stata assegnata proprio una ricerca sull’influenza dell’industria della moda sull’ambiente, che ha reso questo libro ancora più coinvolgente. È riuscito a catapultarmi in una realtà così lontana che, affiancata alla vita quotidiana di questa ragazza, non è apparsa più tanto distante e diversa. In conclusione, qualunque tipo di sfruttamento, che sia umano o territoriale, rimane comunque un’appropriazione illegittima. In entrambi i casi è sempre l’uomo a subirne le conseguenze. È l’uomo che sceglie di rinunciare al benessere collettivo a furia di rincorrere il proprio. È l’uomo che decide di sottomettere qualcuno o qualcosa e questo non è concepibile né da una mente umana ragionevole né dalla natura, che per millenni ha subito e che ora si sta ribellando.
C’è bisogno di un cambiamento, un cambiamento radicale nel nostro modo di pensare, di affrontare e vedere le cose. Perché per cambiare c’è bisogno di apertura, un’apertura completa che ci porti a una trasformazione, a una rielaborazione del passato e del presente per scrivere il futuro. Questo cambiamento però non si raggiunge solamente con il pensiero, ma con le azioni. Nel campo della moda le aziende e le industrie tessili potrebbero cambiare i propri metodi di produzione riducendo il loro impatto ecologico e rispettando i limiti, così che l’uomo possa convivere in armonia con la natura. Si punta, quindi, anche facendo riferimento ad uno dei diciassette obiettivi dell’agenda dell’ONU, a monitorare l’utilizzo di microfibre e microplastiche che vengono rilasciate in acqua e a ridurre la generazione di rifiuti chimici nel processo produttivo. Noi consumatori, invece, potremmo acquistare meno abiti o trovare modalità alternative per far sì che questi capi non vengano sprecati. Possiamo promuovere ad esempio la condivisione, lo scambio e il riciclaggio. Inoltre è un diritto del consumatore quello di essere al corrente delle problematiche legate a questo settore così da sensibilizzarlo e limitare l’acquisto esagerato e impulsivo.
Personalmente sostengo anche che ci siano innumerevoli modi per combattere questo gigantesco problema e sono certa che, in questo ultimo periodo, stanno nascendo nuove forme di lavoro che pian piano si stanno orientando verso la risoluzione dell’inquinamento ambientale e, anche se non ho ancora le idee chiare sul mio futuro e su ciò che farò, qualche volta mi lascio trasportare dall’immaginazione e penso di poter diventare un ingegnere che progetta soluzioni alternative e all’avanguardia ma sostenibili, un’attivista che combatte per il suo pianeta, una politica o giornalista impegnata in campo ecologico. Per questo interesse devo ringraziare Greta Thunberg e un libro che ho letto recentemente in inglese che racchiude tutti i suoi discorsi. Lei è stata un’ispirazione per molti ragazzi e adulti che l’hanno sostenuta, ognuno in base alle proprie possibilità. Ha parlato di inquinamento ambientale, riscaldamento globale, gas serra, scioglimento dei ghiacciai, ma anche delle plastiche presenti nei mari e nella terra. Ha parlato di tutto ciò che l’uomo modifica, ha parlato dell’enorme impronta che l’uomo inevitabilmente lascia su tutto ciò che incontra. Ma questa impronta non può e non deve essere più negativa. Non si deve pensare che l’uomo sia capace solo di danneggiare perché è, per natura, portato a vivere nella serenità alla cui base, secondo me, c’è l’equilibrio. Un equilibrio che negli anni si è perso e che ora va riconquistato. Se si agisce, i due aghi della bilancia raggiungeranno lo stesso livello. Penso che questa sia una sfida molto più grande dell’uomo ma che lui deve accettare, soprattutto quando ad essere in ballo è il nostro futuro!

Quando parliamo di “drill”, riferita al rap, solitamente pensiamo alla corrente musicale nata a Chicago, sulla scia del successo di artisti come Chief Keef, Fredo Santana, Lil Durk ecc., caratterizzata da bassline pesanti e soprattutto dalle liriche violente portate all’estremo e riferite alla vita di strada e criminalità annessa. Questo filone ha avuto il suo apice tra il 2012 e il 2014, dopodiché il fenomeno è andato affievolendosi, andando a disperdere l’hype e l’attenzione precedente. Tuttavia l’influenza e l’eredità drill nell’ultimo periodo sono state raccolte da una nuova generazione di artisti inglesi, in particolare di south, i quali hanno preso gli stilemi e il linguaggio della drill di Chicago, trasformandola in qualcosa di nuovo dalle forti commistioni grime. Arriviamo così ai giorni nostri dove la UK drill, ormai, è una realtà consolidata nel panorama inglese: il 2019 è stato l’anno dell’affermazione per il genere con una lunga serie di progetti usciti e l’arrivo anche oltreoceano grazie all’ormai compianto Pop Smoke che, grazie anche al suo producer, 808 Melo, originario di East London, ha creato una nuova corrente drill negli Stati Uniti concentrata a Brooklyn, attualmente portata avanti da artisti di oggi .La rapida ascesa del movimento sta portando alla luce tutte le polemiche e le problematiche riguardanti la violenza e la criminalità di strada che si portano appresso gli esponenti del genere e che tuttora fanno discutere.
ARTISTI
- Freeze Corleone
- Fivio Foreign
- King Von
- Lil Durk
- Lil Reese
- Lil Tjay
- NLE Choppa
- Polo G
- Pop Smoke
- SD.
KARIM E MARIANNA

Il reggaeton, è un genere di musica da ballo nato a Porto Rico negli anni novanta.
Le sue origini sono un’intersezione di diversi generi musicali ed influenze dei Paesi caraibici, latino-americani e statunitensi.
Il reggaeton in Italia: il successo raggiunto negli ultimi anni è stato ragguardevole, tanto da spingere gli artisti italiani a creare musica in stile reggaeton in lingua italiana.
Alcuni cantanti sono: Karol G, Ozuna, Maluma, Don Omar, Luis Fonsi e Enrique Iglesias. Se fino a qualche tempo fa il suo successo era legato solo al periodo estivo, ora non è più così. Il reggaeton con il suo ritmo coinvolgente è ormai diventato uno dei generi musicali più ascoltati al mondo. Non a caso le due canzoni simbolo degli ultimi anni : Despacito – di Luis Fonsi and Daddy Yankee, che canta in spagnolo, e “Mi Gente” di J Balvin, hanno dominato le classifiche per mesi.
CHI FU IL PRIMO …
Molti considerano il brano dancehall del 1991 “dem bow” dell’artista giamaicano Shabba Ranks come l’inizio del successo del genere. Nel corso degli anni ’90 questo tipo di musica comincia a diffondersi anche in Nord America, fino ad arrivare in Europa, Asia e Australia durante i primi anni del XXI secolo.
I BRANI REGGAETON PIU’ FAMOSI
Anche se non si conosce il ritmo del reggaeton, quasi sicuramente lo si è sentito nelle canzoni pop di questi ultimi anni. Il genere, inoltre, ha influenzato anche una serie di altri brani molto famosi tra i quali:
- “Shape of You” di Ed Sheeran, la seconda canzone più ascoltata su Spotify di sempre.
- “No Vacancy” dei OneRepublic
- “Cheap Thrills” di Sia
- “Sorry” di Justin Bieber
- “Unforgettable” di French Montana, tornato sulla scena con un remix latino americano di J Balvin
KARIM ELSAWY E MARIANNA SALIS